

“In base a come chiami le cose ti comporti” è un’espressione che ho sentito dire durante una sessione di coaching. La persona che stavo seguendo, in quel percorso di coaching, mi parlava dell’importanza dell’uso della parola e di trovare l’espressione linguistica più corretta per definire situazioni e ruoli. Trovando la definizione “corretta” si mettono in atto comportamenti conseguenti “corretti”.
Ecco, questa vendetta – io che scrivo parole – sembro viverla come una specie di legge del contrappasso.
Osservando il comportamento e le azioni intraprese da un mio amico qualche giorno fa ho detto “In base a come chiami le cose ti comporti. Ti sei definito in questo modo … hai dato un nome al tuo ruolo e così ti comporti”. Ridevo, mentre dicevo quelle parole, e stavo ridendo di me. Perché spesso accade che noi diciamo ad altri parole che si vendicheranno di noi o si stanno già vendicando, in qualche modo!
Le parole sono reali in base alla realtà che noi attribuiamo loro. Diamo ad un insieme di lettere dei significati. In questi significati, c’è qualcosa di condiviso con gli altri e, poi, c’è la nostra personale interpretazione e attribuzione di senso. In base a quest’ultima agiamo i nostri comportamenti. Le parole sono rappresentazione del nostro mondo interiore, che è palesato, parzialmente, al mondo attraverso le nostre azioni.
E nel “definirci” e nel dare un senso a questa definizione ci possiamo sentire più o meno “stretti”, “larghi” o comodi come se indossassimo un vestito. Ecco, il definirci è come indossare un abito, che può essere più o meno confortevole.
Questo vestito lo sento stretto?
Perché? Cosa mi è stretto?
Questo vestito mi va largo?
Perché? Cosa manca per riempirlo bene? Lo voglio riempire? Se lo voglio stringere come posso fare?
E’ confortevole?
Perché? Cosa trovo di così confortevole? Non è, forse, come una vecchia tuta logora?
Nel leggere queste domande, faccio un appunto a me stessa come coach ( e sorrido nel farlo). Il “Perché?” è messo al bando da molti coach e da molte scuole di coaching, per vari motivi. C’è chi sostiene che l’espressione richieda una giustificazione o che porti la persona a vagliare il passato, che non è la dimensione temporale del coaching e altre motivazioni ancora.
Mia figlia è entrata nella fase di crescita caratterizzata dal “perché”. Sono “perché banali” e le domande sono su qualsiasi cosa. Nella maggior parte dei casi, mi trovo nell’imbarazzo di dare una spiegazione. Non mi va di rispondere “perché sì”, “perché no” o “perché è così”. Non mi va perché ai suoi “perché” (mi sia scusato il gioco di parole) c’è una risposta. La domanda che inizia con il “perché” è una domanda, a mio avviso, scomoda. Richiede una spiegazione e/o una motivazione delle cose. Il “perché” non si accontenta facilmente delle cose e va alla ricerca delle “cause radice”.
La causa radice è ciò consente, una volta individuata, di fare azioni differenti, porre rimedio a cose che non vanno, capire la possibile fonte di errore e molto altro ancora.
Allora perché chiamare le cose in un modo o in un altro? Perché definirsi in un modo o in un altro? Perché non chiedere “perché”?
Direi, perché ne abbiamo bisogno. Noi cerchiamo significati, più o meno comodi. Intendendo, “comodi” con le diverse accezioni. Cerchiamo anche il significato della nostra vita.
Le parole ci aiutano a cercare questi significati e, in base ad essi, ci comportiamo.
Le parole ci aiutano anche a nascondere (sotto il tappeto) dei significati, in modo che possiamo non comportarci di conseguenza …